Damiano Moscardi, 60 presenze con la maglia del Genoa in cadetteria tra 1999 e 2003 e quasi trecento in Serie B in tutta la sua carriera con le maglie non solo rossoblu, ma anche di Cosenza, Salernitana, Foggia, Fidelis Andria, Pescara e Piacenza, è stato nostro ospite per chiudere un’analisi generale sul campionato di Serie A appena concluso.
In questa carrellata di interviste ci sono stati un direttore sportivo, un giornalista, un preparatore atletico, non poteva mancare un calciatore. Buoncalcioatutti si è rivolto a Moscardi, una vita da mediano, la famosa canzone che stava a pennello quando lui giocava. Ma lui non ha abbandonato il mondo del calcio, perché sappiamo che sta lavorando per l’Inter come osservatore. La prima domanda che ti faccio, Damiano: eri a Monaco di Baviera…ma cosa è successo a questa Inter?
“È stata bell’esperienza per l’esperienza, per il risultato danno tutti com’è andata. Secondo me una condizione fisica non ottimale e anche una buona base di tensione, preoccupazione, il peso della partita contro una squadra nettamente più strutturata, più creata negli anni -basta vedere quello che hanno vestito negli ultimi anni il psg rispetto a noi – han fatto sì che, pronti via, l’abbiano aperta e chiusa in venti minuti e poi non ci abbiano dato neanche modo di poter reagire. Poi è stata la partita che è stata, però il cammino è stato bello, lungo, faticoso, importante. Poi è finita male, però personalmente lo rifarei, cambiando l’esito finale”.
Damiano, parliamo del campionato italiano appena finito. Cosa ne pensi di questo campionato appena finito dal punto di vista tecnico e tattico?
“È stato un campionato in cui non c’è stato uno strappo delle prime sei, sette od otto squadra come sempre succedeva e la classifica si allungava molto. Sono stati molti i risultati ultimi contro prime che non hanno vinto e la classifica è rimasta viva dalla salvezza alle coppe europee passando per lo scudetto. Fino alla fine. Poi c’è tutta la parte centrale e in fondo alla classifica dove, chi ha una partita settimanale, sicuramente ha un compito più duro dovendosi salvare il prima possibile, però possono programmare anche la settimana tipo per poi affrontare squadre sulla carta molto più forti, che però arrivano da tre mesi dove giocano ogni tre giorni”.
Damiano, il calcio è in continua evoluzione, specialmente sulle panchine. Abbiamo visto Sarri che ritorna alla Lazio, Allegri che ritorna al Milan, Gasperini che va alla Roma. Per te qual è l’allenatore più avanti di tutti, di quelli italiani?
“Sicuramente qualcosa di nuovo l’ha portato Fabregas: è uno di quelli che magari con una squadra media, sulla linea del PSG, del Barcellona che giocano, se sei un 2005 e meriti, giochi. Sei bravo? Bene, ti do continuità. È normale che in Milan, Inter, Juve sia più difficile fare un discorso di gioco con due o tre 2005 perché sicuramente c’è un movimento dietro, anche proprio a livello di tifosi, che magari non sono ancora pronti mentalmente ad accettare questa così. Però è quello che ha portato magari un calcio più europeo, un calcio propositivo, un utilizzo della rosa che ha previsto di cambiare sempre tanti giocatori, ma continuando a giocare con la stessa mentalità, con la stessa tecnica, valorizzando tutti i giocatori. È un allenatore che personalmente mi ha impressionato. Mi piaceva da giocatore che era un po’ nel mio ruolo e lo seguivo, perché comunque era un giocatore di intelligenza, di tecnica, di classe: ha riportato tutte queste cose nuove anche nel modo di allenare”:
Per me ne è rimasto solamente uno ed è Ancelotti. Da questo punto di vista il maestro di tutti è lui…
“Sì, sì, ma se senti parlare di Ancelotti – e io lo seguo – Ancelotti ha cambiato mille volte nella sua carriera di allenatore, perché ultimamente parlava e diceva che le squadre in Champions vincono se hanno coraggio. E lo condivido in pieno. Da italiano magari si direbbe “aspetta, vinco, metto un difensore in più, un centrocampista in più, levo una punta”. Invece vedi tante squadre che mettono la terza punta. In Inghilterra, Guardiola mette la terza punta. Si ragiona di squadre top, ovvio, però ci si domanda “come si ragiona?”. E il modo di ragionare è completamente contrario rispetto a quello italiano. Bisognerà fare un mix giusto, perché l’italiano non può partire domani con “tutti avanti e non pensare più a difendere”, visto che comunque è la forza dell’Italia o la forza dell’Inter per arrivare in finale di Champions facendo due partite di sacrificio con Barcellona e con Bayern Monaco. Bisognerà, però, fare un mix in futuro, giocare e abbassare l’età della rosa dei giocatori giovani bravi, forti, che devono giocare di più. Il movimento piano piano deve cambiare”.
Secondo me, nella Serie A appena finita, gli allenatori che ci acchiappavano di più, erano quelli che facevano i cinque cambi – e raramente li sbagliavano – ed erano in grado di cambiare anche tre, quattro moduli durante una partita per mettere in ambasce l’avversario…
“Sì, sono armi utilizzate quando si conosce la rosa a disposizione, armi che uno imposta, sui cui lavora e che cambia durante la settimana. Mi ricordo l’anno scorso, quando ci siamo sentiti, che Gilardino stava vincendo il campionato e tutto andava bene, alla grande, poi è ripartito e la squadra non ingranava. Eppure nessuno mette in discussione Gilardino. Un conto è subentrare, un conto è vincere i campionati, un conto è salvarsi e fare un lavoro a lungo termine. E arrivato Vieira, ha dato subito un’impronta e la squadra è partita e si è salvata in due mesi”.
Ormai i giocatori sono tutti imbrigliati, anche quelli che arrivano da Leicester, dai moduli, dai sistemi di gioco, a discapito delle giocate ad effetto del campionato italiano. Eccetto i tiri a giro, eccetto Orsolini, ne abbiamo visti veramente poco in questa stagione…
“Secondo me fa parte sempre del movimento, perché si cerca il giocatore adatto alla mentalità della società, dell’allenatore, di quello che l’allenatore vuole proporre. Diao del Como, che era in Spagna, classe 2005, gli addetti ai lavori lo conoscono da due o tre anni. È forte, però se uno non adotta quel modulo non lo va a prendere. Fabregas e il Como lo hanno preso, l’han messo in campo, magari anche con un giocatore più esperto, però se merita lui, gioca lui. Sono mentalità societaria, allenatori, dirigenza, allenatori di tutto il movimento che devono cambiare. Allora si andrà su quello giocatore di qualità, il giocatore con la giocata. Ora, invece, si parte da una base per cui i giocatori devono avere delle conoscenze tattiche, perché comunque imposti le partite sempre con un sistema tattico ben organizzato”.
Damiano, tu vivi vicino a Firenze, ma hai amato e ami anche il Genoa. Lo scorso anno Gudmundsson con Gilardino ha fatto 14 reti e quest’anno con Palladino è stato imbrigliato nel modulo, nel sistema di gioco e ne ha fatti solamente cinque. Non ha fatto tutte quelle giocate, tutti quegli assist che mettevano in crisi le difese avversarie. Perché?
“Perché al Genoa naturalmente era libero di potersi esprimere, libero di giocare con le sue caratteristiche. Quando invece ti danno compiti tattici diversi, la prima cosa che devi pensare è dove mi devo posizionare, dove devo difendere, dove devo andare a occupare lo spazio. Poi quando gli arriva la palla che deve strappare e concludere in porta, non è nella zona giusta, non è lucido, è fuori posizione. Io l’ho seguito perché sono qui a Prato, zona Firenze, e sembra che proprio fisicamente non stesse benissimo. E sommi uno, sommi due, e passare da giocatore forte a giocatore normale, da media Serie A, è un attimo”.
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